giovedì 3 novembre 2011

Chi paga che

"Il debito non lo paghiamo" è un'affermazione sacrosanta, meglio se perentoria, quando viene da un lavoratore salariato, e a maggior ragione da un disoccupato, sottoccupato o precario.
"Il debito non si paga" è affermazione futile, qualunquista, populista e quindi pericolosa, perché mette d'accordo lazzari, immobiliaristi e personale politico.
Il lavoratore salariato, a rigore, non dovrebbe nemmeno pagare le tasse sul reddito (le imposte dirette, per quelle indirette non c'è scampo) proprio perché il salario è per definizione il controvalore della forza lavoro erogata. Se il controvalore viene decurtato, la forza lavoro si reintegra solo in parte. A meno che le tasse pagate dal lavoratore salariato non siano una forma di assicurazione, e gli ritornino come assistenza.
In tempi di analfabetismo teorico, una simile puntualizzazione può risultare fastidiosa e inessenziale soprattutto a chi si trastulla nell'infantilismo politico, per il quale la complessità attuale del capitalismo, velata dalla superfetazione finanziaria, finisce per essere rappresentata solo da questa.
Così, nella figurazione fantastica e approssimativa che se ne fa, banchieri e speculatori finiscono per rappresentare il capitalismo annullando e assolvendo l'intreccio di classi e di ceti, di figure e funzioni che pure ne costituiscono l'articolato ingranaggio che lo riproduce.
Il debito c'è, e se chi l'ha contratto non lo paga, finisce con l'essere scaricato su tutti, anzi principalmente su chi non ne ha responsabilità, attraverso aumento dei prezzi, contrazione della produzione e blocco della riproduzione sociale.
Controprova. Come si chiama? test proiettivo, mi pare. Basta fare la conta, tra "amici" e conoscenti, di quelli che "fuori dall'euro", "default subito" e si capisce di cosa si tratta. Di solito sono quelli che, però, invocano il salario garantito, il reddito di cittadinanza, la cultura come risorsa e il mantenimento dello Stato sociale. Gratis?
Siccome sono tanti, rappresentano pubblico per economisti "militanti", insomma quelli che a rotazione hanno scritto in queste ultime settimane su come uscire dalla crisi, ognuno con la sua ricetta.
Analfabeti, infantili e faciloni hanno sempre a portata di mano una realtà da clonare, copiare, trasferire. "Facciamo come". L'ultima, l'Islanda.
Quattro volte più grande della Sicilia, ma con una popolazione quindici volte inferiore. Quasi un mito. La leggenda di un paese che si è affrancato, che ha preso nelle proprie mani il suo destino. Ma l'Islanda non è andata da nessuna parte. E il debito lo sta diligentemente pagando. Poteva andare diversamente?
"Facciamo come l'Islanda", dicono. Ma l'Islanda si è messa nelle mani del FMI secondo un accordo molto preciso di ristrutturazione del debito. O no?

http://www.imf.org/external/np/sec/pr/2011/pr11316.htm
http://phastidio.net/2011/10/31/islanda-allieva-prediletta-del-fmi/

lunedì 24 ottobre 2011

De senectute

Tre vecchi

Domenica 23 ottobre, sul manifesto, comparivano tre testi scritti da vecchi.
Uno è quello di un vero Grande vecchio, Paolo Villaggio, che nella sua rubrica Il benpensante continua a perturbare, anzi a urtare, i benpensanti del giornale "comunista". Villaggio, con i suoi film e con i suoi libri ha inciso sul costume, sulla lingua, sulla cultura, e pure sulla mimica di questo paese a partire da una macchietta che ben presto, anziché una deformazione della realtà, si è mostrata come la restituzione esatta di una realtà deformata. Insomma, una autentica critica dell'ideologia. Ora, con le sue provocazioni quasi quotidiane, mal sopportate da molti lettori, continua a riproporre il suo personaggio-specchio lasciando interdetto il lettore su quanta partecipazione sua ci sia – anche se probabilmente nemmeno Villaggio sa se, e quanto, sdoppiamento c'è in questo suo stralunato dire. Ma così facendo offre a chi legge una straordinaria occasione per fare i conti con lo stranirsi del vecchio in questo mondo, su come gli sia arduo sopravvivere rimasticando vecchie certezze.

Il secondo, Alberto Asor Rosa, è un vecchio futile, sopravvissuto al suo magistero di italianista, tanto futile da non risultare dannoso nemmeno alle patrie lettere, nonostante, e per giunta, abbia voluto pubblicare in extremis un proprio romanzo. Con le sue esercitazioni retoriche questa volta, anziché invocare l'intervento dell'Arma dei Carabinieri, chiama alla pugna, argomentando sul combinato disposto di tre articoli della Costituzione. E s'indigna, e si sdegna, verga votacci sul libretto, a tutti, perché nessuno corrisponde alle sue aspettative, risultando patetico, futilmente patetico, quando invita ad andare subito alle elezioni per arrivare a un governo di coalizione democratica, nonostante abbia riconosciuto che i partiti dell'opposizione tutto sono meno che uniti. Una forzatura. Insomma, un irresponsabile. Catafratto in un ruolo che si è assegnato nel generale disinteresse.

Il terzo, Rossana Rossanda, scrive un articolo di maniera forse, ma tutto giocato sui fondamentali e mettendo il suo corpo, la sua vita, i suoi ripensamenti, di traverso nei confronti di usi linguistici impropri, ossimori e paradossi, di marca imperialista, democratica e anche di sinistra.

Chi riesce a diventare un vecchio conclamato, una volta schivati cancri, incidenti stradali e vasi di fiori sulla testa, dovrà usare il proprio corpo fino alla fine, in un mondo accelerato, riproducendolo criticamente. Ma soprattutto dovrà usare il suo valore aggiunto, la propria memoria, e usarla provocatoriamente nei confronti di chi non ce l'ha. Con la consapevolezza che solo pochissimi vini invecchiando migliorano, tutti gli altri diventando ciofeche.

Che sia loro lieve la progressiva atrofia delle arterie.

Tutto in primo piano. E lo sfondo?

Quello che segue è il testo dell'intervento di Claudio Del Bello, mercoledì 9 Marzo 2011, alla BIBLIOTECA VALLICELLIANA al Convegno LETTERATRONICA, Riviste, editoria e scritture nella rete globale.

Il problema è che siamo troppo appiattiti sull'oggi, con la conseguenza che si finisce per cogliere solo il rapporto, dimenticando il processo. E quando ci si disponga a scandirlo, il processo, si finisce per trovarsi presi nella rete. Ci preoccupiamo di cogliere le più minime modificazioni, ci preoccupiamo delle mutazioni antropologiche. Mutazioni che quelle modificazioni registrano, puntualmente, millimetricamente. Ma l'uomo è l'ente umano generico - è stato detto. Un ente che più plastico non ce n'è. Ci ha abituati a giravolte, capriole, estrusioni e involuzioni, sempre impegnato in imitazioni progressive. Con il risultato che, attenti alle mutazioni antropologiche, non ci accorgiamo delle mutazioni logiche. Attenti al continuo, non cogliamo i salti. Perbacco!

Più di venti anni fa, forse venticinque, ho abbandonato la macchina per scrivere e sono passato al computer molto prima della maggior parte dei miei colleghi. Però, il mio maestro Vittorio Somenzi, filosofo della scienza, amico e collega dei maggiori cibernetici, non aveva il computer. Teorico dell'intelligenza artificiale, ne scriveva di computer, ma non ci scriveva. Scriveva con una portatile, con la penna o col gesso, e negli ultimi tempi leggeva solo libri di storia. Un mondo fa. Ma non stiamo parlando né dei graffiti nelle caverne, né della stampa tipografica. Stiamo parlando della rete. Che esiste da un tempuscolo.

Ho visto le stesse cose che hanno visto gli umani, ma con qualche anticipo. Non mi sono negato nulla: sito, blog, social network, liste di discussione. Profili e identità multiple: ho quattro nomi. Ho visto allibito serpeggiare e poi esplodere una incontenibile violenza verbale in liste di discussione abbastanza esclusive, che in confronto Facebook risulta un club di bigotti. Più recentemente ho visto anziani cattedratici farsi un profilo su FB e far di tutto per emulare gli "amici", un po' come quando si balla per la prima volta l'hully gully. Una mimesi plumbea e catafratta. Chi ci guadagna?

Rispondo al quesito che Marco Palladini pone nel suo testo di convocazione. No, non credo che si possa indirizzare lo sviluppo della rete, per lo meno senza enormi capitali. Capire e prevedere però sì. Non si torna indietro, "nulla sarà più come prima" - nonostante, in generale, l'uso della formula sia fervidamente scaramantico. Per essere chiari, non credo che si possa ipotizzare un ritorno delle tecniche, per usare una nozione dell'economia. Certe modificazioni sono irreparabili. Comunque vada, la contemplazione della produzione esponenziale delle identità, lungi dal potenziare il soggetto, lo sgretola definitivamente, impedisce una volta per tutte la responsabilità. Tante identità, nessun soggetto. Cuccù, sèttete.

La percezione è oggettiva, la scienza è soggettiva, si sente ripetere come un karma. L'unico significato possibile di questa apparentemente paradossale asserzione è che, per raggiungere una visione distaccata, immersi come si è in questo cloud, si deve compiere un'impresa titanica e consapevole. Il problema è - per dirla in altro modo - che stiamo pescando tutti nella stessa memoria, negli stessi archivi, nello stesso immaginario. Un potente meccanismo di autocolonizzazione. Nulla viene più da fuori.

Si era riusciti a dimenticare un certo gruppo musicale, una certa faccia, un certo nome, un certo autore, un film infamante, un calciatore, un Carosello, una figurina, … Niente da fare, inesorabilmente e casualmente, c'è qualcuno che vanifica una lunga operazione di rimozione. E ci scarica addosso la montagna di ciò che avevamo messo da parte. Non si è soltanto ciò che si ricorda, ma anche, e direi soprattutto, ciò che si è riusciti a dimenticare. Gli agguati alla soggettività sono continui. Ma dico io, se il letterato permane sui social network, quando ha il tempo per formarsi? Per attendere alla propria Bildung? La Bildung di tutti è la Kultur ridotta ai livelli più bassi. Ormai, in questa corsa disperata, il tempo si prende sugli ultimi. Nemmeno i decoubertiniani ortodossi potrebbero accettare questa maledizione.

Le tragedie saranno tutte in due battute. I racconti avranno il limite delle battute di Twitter. Hai scritto un libro? Pùbblicalo! Se si prova a quantificare, a seguire da presso l'andamento, il bilancio degli acquisti e delle perdite, si capisce che il limite è stato già superato, siamo già tutti al di qua. Né apocalittici, né integrati: tutti fottuti. E comunque, i letterati non riusciranno a salvare la letteratura perché non riescono a selezionare e selezionarsi.

Parlo da editore, ho cessato di pubblicare l'Almanacco Odradek, perché era chiaro che la formula evocava quella della palestra. Ci vado quando mi pare, mi alleno, faccio un po' di stretching e esco. È finita l'epoca dei manifesti, caro lei!

La collana di narrativa è morta lì, perché è stato chiaro che una collana affidata a testi di ricerca era scansata e guardata con repulsione, addirittura da ciascuno di quelli che aspiravano a pubblicarvi un proprio testo. Della serie, chi leggerebbe più Gianni Toti?

Le falde sono inquinate dal percolato di cui sopra. Tutti scrivono e non c'è più tempo per leggere. Gli editori aumentano e i lettori diminuiscono. La letteratura potrà farcela? Forse. Ma è il letterato che va verso l'estinzione. Se continua a sfarfallare nella rete, di sicuro la letteratura non sarà più la stessa, e probabilmente non si potrà più parlare di letteratura.

Fin qui la mia può sembrare una patetica recriminazione: o tempora o mores! E invece no. Dalla rete mi aspetto molto.

Aspetto il primo manuale di storia europea, che parli di rapporti e di processi, e senza eroi. Per far questo, la rete aiuta, ma non basta. Ma senza rete non si fa.

Aspetto il primo manuale di Filosofia, senza nomi di filosofi. Si può fare! Ci vuole un team internazionale che lavori ciascuno a casa sua a un testo blindato. E guai a chi tocca una virgola.

Aspetto un prepotente avviarsi di meccanismi di selezione qualitativa. Nessuna misericordia per chi scrive. Hai scritto? Sei già stato gratificato. Per essere pubblicato, devi concorrere. Se non accetti il giudizio, apri un blog per pochi intimi. E pèrditi nella rete.

Se e dove ciò possa accadere, non lo so. Il problema è la lingua. Se continuiamo a parlare la lingua che ci parla, l'uroboro si chiuderà sempre più, con ciascuno dentro.